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YoungPress
Libri
08 Gennaio 2016
L'insostenibile leggerezza di "After"

La descrizione di entrambi i personaggi emerge da tanti piccoli tratteggi che appaiono grossolani e forzati, e quindi il più delle volte inutili e ridondanti.

La cifra espositiva di questo romanzo è proprio l’esplicitazione parossistica di ogni cosa. Ogni volta che si staglia la possibilità di delineare efficacemente un personaggio con una battuta, ecco che intervengono a più riprese interventi atti a sottolineare e ridire in altre forme ciò che è stato già detto.

In questo modo le insicurezze adolescenziali della protagonista, sua caratteristica fondante, assumono proporzioni grottesche, sfociando quasi nella schizofrenia: in un singolo periodo ho contato ben 7 (sette!) repentini cambi di opinione. Al punto che l’indecisione sul possibile acquisto di un’auto assume le connotazioni di un moderno “to be or not to be”. E il monologo interiore sulla compagna di stanza appare più come un confronto assembleare tra gli inquilini della mente della protagonista. Che, voglio dire, sarebbe anche un’idea notevole, ma manca il segnale della volontarietà dell’idea stessa. Ecco, sembra una costruzione narrativa messa in piedi un po’ a casaccio, per riempire le pagine più di inchiostro che di parole e di frasi di senso compiuto. La sensazione è quella di trovarci di fronte all’opera di uno scrivano, che scrive scrive scrive senza fermarsi un attimo a pensare e costruire.

La stessa situazione di imbarazzo narrativo si ritrova negli interventi di discorso diretto, con esplicitazioni assurde e un linguaggio che mai (questi) ragazzini diciottenni utilizzerebbero. Questo linguaggio troppo attento e preciso stride con la volontaria (e azzeccata) costruzione della voce narrante, in cui è evidente lo sforzo di trasmettere una voce adolescente. È anche vero però che queste distrazioni lessicali coinvolgono solo le prime decine di pagine, poi quando la storia diventa esclusivamente questione di trucchi feste e ormoni a palla, il lessico si appiattisce verso un medio-basso imbarazzante ma in linea con il contenuto della narrazione.

Inoltre, nel caso incredibile ed epifanico in cui una battuta di dialogato riesca ad essere efficace e ben costruita, ecco che subito la voce narrante irrompe con la sua banalità a distruggere quel briciolo di credibilità che aveva involontariamente abbozzato. O viceversa. Perché quando il narratore centra un termine corretto per introdurre il discorso diretto, questo produce un’irritante eco che conferma quel termine: ogni volta che il discorso diretto è introdotto da “sospira” siamo serenamente certi che sta per apparire dal cilindro grafico una terna di puntini di sospensione.

[Tessa ha appena baciato Hardin e ora sta parlando con Noah, il suo ragazzo]
«Non mi piace proprio quello lì», dice Noah.
«Neppure a me», sussurro.
Ma so che è una bugia. [ma va?!]

Concentriamoci un attimo sul ritratto della protagonista. L’eroina di questo romanzo è una ragazzina enormemente insicura, perciò dotata di un non comune istinto di pianificazione, risultato delle ansie di una madre iper-protettiva. La frase che raffigura alla perfezione il rapporto madre-figlia è “non mi piace, ma mia madre ha insistito perché io X”, dove al posto a X si può sostituire qualunque cosa da “mettessi quel vestito” a “mi depilassi le gambe” o “mi fidanzassi con tale Noah“. Quest’ultima sostituzione ci porta all’elemento centrale che sorregge tutta la storia: il fidanzato sfigato e cornuto. Premessa: quando Tessa va al college, lascia la madre ma anche il ragazzo, promettendogli che si sarebbero visti spesso. La figura di questo ragazzo, dicevamo, è centrale. Senza di lui, Tessa avrebbe baciato Hardin la prima volta che l’ha visto (invece lo fa al secondo incontro, la donzella) e i monologhi interiori della protagonista si ridurrebbero al 10%. Nel restante, e magico, 90% Tessa si chiede infatti se per caso si stia comportando in maniera troppo lasciva e libertina secondo il suo ragazzo (ma no Tessa, non c’è problema se ti ubriachi con un ragazzo, ci vai a letto, fai la doccia con lui, e con lui fai in una settimana “cose che non ho mai fatto in due anni con Noah“! Il tuo Noah ti perdonerà sempre). Obiettivamente però, se nell’ipotetico “Tessa Grand Prix” Hardin parte in pole position su una Ferrari, Noah parte dai box, di un altro circuito, di un altro paese, su un auto elettrica, e per di più scarica.

Infatti egli, il fidanzatino storico con cui sta da due anni (il loro rapporto è ben spiegato dalla protagonista, in un momento di confronto con il trasgressivo Hardin: “non abbiamo bisogno di fare sesso: ci divertiamo in altri modi, per esempio… be’…andiamo al cinema, o a fare passeggiate“), è un’insopportabile spia petulante. Nelle fasi iniziali del romanzo, quando Tessa è ancora legata al suo ambiente familiare bigotto e facilmente scandalizzabile, quando si ubriaca alle feste chiama subito Noah per cercare conforto, e in cambio riceve a) rimproveri, b) espressioni di delusione, c) innumerevoli e istantanei messaggi di sua madre perché Noah “gliel’ha spifferato”. L’apice dell’insignificanza si ha al 20esimo capitolo, quando Tessa dice a Noah “ciao” al telefono, lui capisce che è ubriaca, lei dice che non lo è. Risultato? Alle sei del mattino Mammina e Noah bussano alla porta e irrompono come membri della S.W.A.T.

Non mi dilungherò sulla storia d’amore tra Tessa e Hardin (perché scommetto che sapreste già ogni minimo passaggio). Né sulle scene di sesso (che ammiccano al porno soft, con un richiamo alle 50 sfumature di James) troppo esplicite ma funzionali a raccattare schiere di lettrici in preda agli ormoni. Né sulla conclusione del libro (si chiude con un grande colpo di scena, allungandosi verso infiniti sequel), che è decisamente divertente – quindi riuscita? Macché, voleva essere una conclusione in qualche modo drammatica e invece è comica e idiota. Ci tengo solo a puntualizzare un tassello della trama (spero di non spoilerarlo a nessuno, in quanto spero di cuore che non leggerete il libro): i due fanciulli, dal grande talento (l’unico, a quanto pare) sotto le lenzuola, si vedono ricoperti di occasioni di lavoro in campo editoriale, senza esperienze di alcun tipo, così, a caso. Va beh, tralasciamo.

Per chiudere questa recensione di After, tornerò indietro, al suo Prologo. C’è una frase che mi ha colpito, la frase più vera e più piena di significato del libro, frase quasi profetica. Qui la protagonista sta facendo una breve presentazione della sua schizofrenia galoppante e del suo cronico stato di ansia nei confronti del futuro. Dice, dopo aver presentato l’incontro con Hardin:

«La mia vita ha iniziato a somigliare ai film che vedevo da ragazzina: quelle trame ridicole sono diventate la mia realtà».

Che dire? Si tratta di un atto di onestà intellettuale apprezzabile dell’autrice Anna Todd, in cui conferma lo spiccato tratto di ridicolo che compone e sorregge il suo romanzo.

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L'autore
Federico Graziani
Federico Graziani

Studio Lettere all'Università degli Studi di Milano. Appassionato di letteratura, mi diletto con la scrittura e talvolta ammicco al giornalismo. Ma soprattutto provo una quantità non indifferente di invidia per chi riesce a scrivere interessanti descrizioni di sé in tre righe.

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