Ci raccontarono della tripletta di Pelè in finale di coppa del mondo a soli 17 anni, della punizione a effetto di Platini, dei gol al volo di Van Basten, del Gol del secolo e delle gesta di un certo Diego Armando Maradona, capace di saltare mezza Inghilterra in 11 tocchi 60 metri palla al piede prima di metterla in rete. Racconteremo di un carabiniere che in un autogrill esplode colpi d' arma da fuoco uccidendo un ragazzo di 28 anni, di un motorino portato allo stadio e lanciato giù da una gradinata, di un ragazzo sparato prima della finale di coppa Italia, dei cori prima di Napoli-Verona che inneggiano allo sterminio di un popolo intero ad opera della lava del Vesuvio.
Alcuni li definiscono episodi isolati eseguiti da pazzi che non hanno nulla a che vedere con il calcio, altri come atti di organizazzioni collettive per nuocere volontariamente, oppure c'è chi dice che tutto sia accaduto per scontri fortuiti tra tifoserie rivali degenerati in tragedia per mancanza di presenza e professionalità da parte delle forze dell' ordine. E che i cori di domenica, e non solo, sentiti al Bentegodi siano appartenenti a pochi ignoranti che non sanno di cosa parlano. O meglio ancora, arriva la Gazzetta dello sport, che snobba il problema, esaminando questo atteggiamento come un attaccamento forte alla maglia da parte dei tifosi veronesi, che in qualche modo li accomuna ai napoletani. D' altronde questo paese non ha mai saputo estirpare l' erbaccia alla radice ed ha sempre avuto bisogno dei capi espiatori. Ma, a mente fredda, forse possiamo affermare che situazioni del genere, in una partita di calcio, non derivano necessariamente da un unico fattore. E questo episodio e tutti gli altri atti di violenza, verbale e fisica, praticati negli stadi di tutta italia vanno osservati con un occhio critico che vada oltre i gesti, oltre le parole. Perchè il modo migliore di analizzare le situazioni di una società è proprio quello che passa attraverso le nostre passioni.
Nostalgici paragoni riportano le menti e i cuori agli anni 70-80-90. Correvano anni in cui il paese fioriva economicamente e artisticamente e il calcio era una ciliegina sulla torta al fine settimana. Anni in cui questo mondo, seppur in parte sporcato da sempre dai poteri del palazzo e dal calcio scommesse, ma non ancora condizionato dalla globalizzazione e dai dirtti tv, vedeva le squadre scendere in campo la domenica alle 15 (tutte insieme) avvolte da 80-90 mila appassionati, padri, madri, bambini che trasformavano stadi in arene, dove confluivano tutti i sentimenti migliori. Stadi dove a bordo campo ultrà romani e napoletani cantavano abbracciati prima di quello che una volta veniva chiamato "Derby del sole".
Oggi, invece, piove in questo paese che è cambiato e con esso il suo calcio. E si è trasformato il suo modo di viverlo. Non sembra più essere quel divertimento spensierato per cui è nato e si è diffuso, bensì uno sfogo, un modo di evadere da una quotidianetà che non ci rende sereni, un punto in cui tutte le energie negative delle vite frustrate di mezza Italia collidono. Ciò ha fatto sembrare marcio quello che in realtà è una cosa semplice e pura, un pallone, rotondo, come la terra, duro fuori e morbido dentro, come noi stessi. E l' unica cosa in grado di macchiare quella palla semplice e pura dovrebbe probabilmente essere il fango di un campetto di periferia, dove i bambini la prendono a calci per la prima volta, non il sangue dei tifosi, non i cori beceri colmi di nazismo e odio.
Ma esistono ancora i gemellaggi tra tifoserie, i bambini che vanno allo stadio uno con la maglietta dell' Inter e l' altro con quella del Milan, a braccetto. Si leggono ancora striscioni d' amore tra un popolo e i suoi eroi, ultrà che cantano a squarciagola per 90 minuti, senza armi, solo grida di passione. Ed esistono quei calciatori che pagano le operazioni ai propri tifosi e quei presidenti che non monetizzano tutto permettendo a chiunque di seguire la squadra del cuore. Ecco si, forse questi ultimi sono ormai molto pochi. Ma il frutto in sè non diventa un veleno perchè qualcuno ha deciso di avvelenarlo, perchè la speranza dei frutti nuovi che verranno si rinnoverà sempre. E, mantenendo questo spirito futurista, si ripensi a quando il 10 Novembre 2001, prima di calciare quel pallone sotto gli occhi del suo stadio un' ultima volta, un illustre, che al calcio aveva dato tutto e forse tutto gli aveva anche preso, disse una cosa da cui ogni amante del calcio che non perde la speranza dovrebbe ripartire. "La pelota no se mancha". Il calcio non si sporca.