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01 Febbraio 2015
La professione della signora Warren

Giancarlo Sepe porta sul palcoscenico “La professione della signora Warren”, scritta nel 1894 da G. Bernard Shaw e subito censurata. Il motivo di tale censura non è difficile da immaginare, dato che il titolo dell’opera è piuttosto eloquente: la signora Warren esercita il mestiere più antico del mondo. La prima rappresentazione si ebbe pertanto solo nel 1902. A più di un secolo di distanza la signora Warren torna in scena: a rappresentarla, Giuliana Lojodice, affiancata da Giuseppe Pambieri, nei panni del socio in affari Crofts. Seconda protagonista è la signorina Warren, Vivie, cresciuta sempre lontana dalla madre proprio a causa del mestiere da questa svolto. Adesso, in una casa in Inghilterra, le due donne si incontrano, ma in realtà, nonostante la parentela, non hanno niente in comune e, soprattutto, Vivie non conosce niente della madre. Sa della sua infanzia, passata nella povertà, motivo che l’ha spinta alla prostituzione, ma è ignara del fatto che gli affari che l’hanno resa tanto ricca, e che ancora continua ad esercitare, siano sempre legati a questo mestiere. La signora Warren, infatti, assieme a Crofts, è diventata tenutaria di diverse case chiuse sparse per l’Euorpa. A far da cornice alle due donne ci sono quattro personaggi maschili, tutti in qualche modo legati a loro: il già citato Crofts, Praed, Frank e suo padre, il reverendo.

 Il giudizio di Vivie riguardo alla professione della madre è molto duro, la morale non ammette repliche. “Chiunque ha qualche possibilità di scelta”, dice Vivie, e prosegue, “la gente addossa sempre la colpa di quello che è alle circostanze. Io non credo alle circostanze. In questo mondo si fanno strada le persone che si mettono in cerca delle circostanze che preferiscono, e, se non riescono a trovarle, se le creano.” Sì, ha ragione Vivie, ognuno di noi può scegliere, c’è sempre un’altra strada. Ma non è così semplice. Giudicare è semplice, si punta il dito e si emette una sentenza. Ma scegliere no, non è semplice. E quando a scontrarsi ci sono da un lato la miseria e dall’altro i soldi, a vincere sono sempre, o quasi, i soldi. Lo stesso Shaw affermò di aver scritto quest’opera “per attirare l’attenzione del pubblico sulla verità del fatto che la prostituzione è causata non dalla depravazione delle donne o dalla scostumatezza degli uomini, ma semplicemente dall’essere le donne così vergognosamente malpagate, sottovalutate e sfruttate, che le più povere di esse sono costrette a ricorrere alla prostituzione se vogliono mantenersi in vita.” Quello che però sconvolge veramente Vivie, non è tanto il passato da prostituta della madre, quanto l’apprendere che, una volta uscita dalla miseria, ella abbia continuato a seguire il richiamo del denaro, aprendo molte case chiuse, sfruttando la prostituzione come un grosso commercio internazionale. Ed è qui che emerge la differenza fondamentale tra le due donne. Anche quando la situazione non era più disperata, e forse scegliere allora era veramente più facile, Vivie ha scelto la dignità, per quanto misera, arrivando a rifiutare i soldi che le passava la madre e affidandosi alle sue sole capacità. La signora Warren, invece, ha scelto e sceglierà sempre il denaro, perché questo “significa un vestito nuovo al giorno; teatri e balli tutte le sere; il fior fiore dei gentiluomini europei ai tuoi piedi; una splendida casa e tanti servitori; i cibi e i vini più raffinati.” E questo conta più di ogni altra cosa. Conta più della dignità.

 Da allora è passato un secolo, in Italia la case chiuse sono state vietate, ma né qui, né altrove nel mondo, il problema della prostituzione è stato risolto. Forse però dovremmo farci un esame di coscienza e renderci conto che qualche volta siamo proprio noi “ricchi” a negare la possibilità di scelta e ad attribuire prezzi e soprattutto valori sbagliati. Perché come diceva Bernard Shaw, “se nella società troviamo ciò che chiamiamo vizio in luogo di ciò che chiamiamo virtù, è semplicemente perché paghiamo il vizio più della virtù.”

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